Poco più di dieci anni fa Nanni Moretti (con il film La stanza del figlio) e ora Michele Serra (con il libro Gli sdraiati) rappresentano, sia pure in modi diversi, la figura di un padre alla disperata ricerca del rapporto con il figlio. Due enormi successi di critica e di pubblico: accostarli può essere utile. E’ ciò che mi propongo di fare in questa pagina (1) e in quella del mese prossimo. Ai lettori che non lo conoscessero, suggerisco di vedere il film prima di leggere l’articolo, oppure di rileggere quest’ultimo dopo averlo visto, così da non perdere la pregnanza di alcuni dettagli.
In una puntata della trasmissione Che tempo che fa, (2) Fabio Fazio intervista Nanni Moretti ed esordisce riportando a sorpresa un giudizio molto severo dato dall’ospite che l’aveva preceduto, l’ebreo ultranovantenne Stephen Hessel (3): «La sinistra è triste dappertutto». E Moretti replica: «Non ho capito se questo è inevitabile o se è una costatazione, ma di questo parleremo in un’altra occasione.» Quel breve scambio, fuori da ogni copione, fornisce una chiave importante per comprendere il nostro tema.
Non conosco l’intera produzione cinematografica di Moretti, ma gli riconosco l’ambizione – non comune – di esercitare una costante attenzione ai legami sociali oggi esistenti. Nei suoi film ha processato realtà tra loro diverse e rilevanti: la sinistra italiana, la chiesa cattolica e la psicoanalisi. A mio avviso, è il suo merito principale. Anche se si può imputare a Moretti una certa supponenza, questo merito gli va riconosciuto.
La stanza del figlio (2001) fu un grande successo e ottenne diversi riconoscimenti, tra cui la Palma d’oro a Cannes. L’operazione culturale voluta dal regista era centrata sul celebrare il dolore per il lutto forse più straziante: la morte di un figlio in giovane età. Non solo: egli volle fare di questo dolore il test per eccellenza della professione psicoanalitica, fino al paradosso della sua implosione. (4) Ma l’operazione non convince del tutto: vedremo perché.
Nel film, la stanza con cui ha a che fare questo padre è mostrata vuota dopo la morte del secondogenito. Ma anche l’altra stanza, quella che oggi usa chiamare “la stanza d’analisi” è vuota fin dall’inizio, fino alla logica e conseguente decisione di “chiudere bottega”. La stanza vuota è dunque un feticcio, e le esequie celebrate dal film sono anzitutto quelle del figlio, prima ancora che di quel figlio. Sembra che Moretti abbia concepito una specie di figlicidio, forse la forma più evoluta e attuale del parricidio. La figura del padre che egli mette in scena sembra avocare a sé, e a sé soltanto, la capacità di disegnare l’orizzonte dei valori, degli interessi e perfino dei gusti del figlio. Con quanta consapevolezza, non saprei dire.
Se non ci lasciamo distogliere dall’esibizione del dolore davanti al feretro, ci accorgiamo che il tema del lutto offre una debole e ideologica copertura alla melanconia, che invece già covava nel protagonista e nella sua “nuclearissima” famiglia: non un amico, né un collega, né qualcuno con cui parlare. In questo modo ultima parola è lasciata alla patologia, qui rappresentata come coincidente con l’esistenza stessa. Lo dice bene quel paziente che, ossessionato dal pensiero del suicidio, esclama: «Vorrei piangere tutta la vita!» A ben vedere, quello di Moretti non è un divano granché comodo, se i suoi pazienti non vedono l’ora di lasciarlo; e non si può certo dire che lo psicoanalista stia più comodo nella sua poltroncina che sembra appena uscita dall’IKEA.
I dettagli sono importanti: se giacca e cravatta non sono, o non sono più, l’abito del moderno curatore d’anime, (5) allora perché indossarle quando si viene convocati dal preside? Viene il dubbio che le camicie a scacchi e i pullover a girocollo di Moretti siano un modo per nascondere ai pazienti e al pubblico il fatto che guarire dalla psicopatologia, come pure generare un figlio, comportano un lusso cui Moretti non accede. Non stupisce quindi che non abbia mai la risposta pronta di fronte alle provocazioni dei suoi pazienti. Ci vuole altro per tenere testa alla patologia!
Fin qui, il cedimento nella vita professionale del protagonista, che chiude lo studio perché non è più capace di mantenere la “giusta distanza” dai suoi pazienti. Quasi venticinque anni trascorsi dietro il divano mi consentono di prendere le distanze da questa autogiustificazione, che peraltro fa leva su un argomento trito e ritrito: ma quale “giusta distanza”? Piuttosto, è stanco di continuare a tenerli a distanza! Chi conosce qualcosa della psicoanalisi, anche solo attraverso la divulgazione, sa che uno psicoanalista non effettua visite domiciliari, mentre qui il protagonista si precipita a casa del suo paziente correndo dietro alle sirene dell’angoscia e del dolore.
Ma anche nella sua vita personale le cose non vanno affatto bene: voltate le spalle alla mitica Nutella di altri tempi, (6) il mangiare è maltrattato a colpi di sottilette e crosta di pane, in autarchica solitudine. Magistrale rappresentazione dell’anoressia: essa riguarda sì il mangiare, ma anche il parlare, per non dire l’improbabile fare l’amore con la bella moglie (Laura Morante, bravissima, più che nei film precedenti). (7)
Nonostante, o invece a causa dei suoi limiti, il film resta un’ottima occasione per addentrarci nella distinzione tra il lutto e la melanconia. Il breve saggio di Freud del 1917 (8) è una lezione dal valore inestimabile, eppure nei decenni è rimasta pressoché inascoltata.
Quando capita un lutto, padre è quel tale che per primo apparecchia un po’ la tavola forzandosi amorosamente di mettere qualcosa sotto i denti insieme a chi è stato colpito dal medesimo lutto. Ma sarà capace di farlo solo se in lui l’obiezione a che la vita continui non è l’ultima parola. E proprio un tale umanissimo atto risulta impossibile se tutta la vita è già impostata perché niente si muova o accada. E’ il caso del Moretti-pensiero. Tutta una serie di indizi ci dice che per Moretti il tempo si è fermato a quegli anni formidabili. (9) Lo dimostra il fatto che nel film, ambientato e realizzato nell’anno 2001, non trova posto neanche un cellulare.
La questione, a mio avviso, è: che cosa, o chi, ci vuole perché la melanconia non sia lei a dire l’ultima blasfema parola, offendendo anche l’umanissima esperienza del lutto? Questo, Moretti, pur bravissimo, non sa o non vuole dirlo.
NOTE
1. Questo articolo rielabora la mia recensione del film di Moretti pubblicata sul settimanale Vita il 22 aprile 2001 con il titolo La stanza senza il figlio.
2. L’intervista andò in onda in occasione dell’uscita nelle sale del film di Moretti Habemus Papam (aprile 2011).
3. Stéphane Hessel (1917-2013), scrittore tedesco naturalizzato francese, si distinse per il suo costante impegno politico. Nel 2010 scrisse il pamphlet Indignez-vous! (Indignatevi!), il cui successo mondiale contribuì al movimento degli Indignados.
4. Il tema del dolore e della provocazione che esso rappresenta, non soltanto per chi lavora come psicoterapeuta o psicoanalista, è attualissimo. Lo dimostra il fatto che l’ultimo Congresso dell’IPA (International Psychoanalytical Association), tenutosi a Praga nell’agosto scorso, è stato interamente dedicato a questo. Il titolo era Facing the Pain, affrontare il dolore.
5. “Curatore d’anime laico” è un’espressione che Sigmund Freud usa in una lettera al Pastore Oscar Pfister (25 novembre 1928): «Non so se Lei ha colto il legame segreto tra l’Analisi laica e l’Illusione. Nella prima voglio mettere l’analisi al riparo dai medici, nell’altra dai preti. Vorrei consegnarla a un ceppo che non esiste ancora: un ceppo di curatori d’anime mondani che non hanno bisogno di essere medici e si possono permettere di non essere preti.» (trad. di G.B. Contri),
6. Molto nota la scena del gigantesco barattolo di Nutella nel film Bianca (1984).
7. «Un Moretti focoso fra le lenzuola non lo riconosciamo», scrive Andrea Peresano sul sito Cinema del silenzio, http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=film&id=2100 Aggiungo: qualcuno ha detto post coitum anima tristis. Ma quando ciò è vero, non c’entra il lutto. E la breve scena in cui Moretti si accosta alla Morante per fare l’amore è tristanzuola e pornografica, ben prima dell’evento luttuoso, proprio per il fatto che i due restano vestiti!
7. S. Freud, Lutto e melanconia, OSF, Bollati Boringhieri, vol. VIII.
8. M. Capanna, Formidabili quegli anni, Rizzoli, 1988.