Vittorio De Sica «aveva una capacità rara: saper mescolare l’alto e il basso, la serietà con la spensieratezza». (1) Cercherò di mostrare come egli sia stato nel medesimo tempo padre e figlio. Ciò affiora, per esempio, in un notevolissimo episodio legato alla liberazione di Roma (giugno ’44), ma soprattutto in tutto quel che riguarda il rapporto che ebbe con il proprio padre, Umberto De Sica. Durante l’occupazione nazista della capitale, il Vaticano cercava di realizzare un film su un gruppo di malati che si recano in pellegrinaggio a Loreto in cerca del miracolo. (2) La produzione voleva che l’interprete principale fosse l’attrice Maria Mercader, con la quale De Sica aveva una relazione e che poi sposò nel ’68, quando i loro figli erano già grandi. La Mercader riuscì a convincere il produttore ad accettare De Sica come regista e Zavattini come sceneggiatore. Il film si sarebbe intitolato La porta del cielo. (3) In questo modo Vittorio si salvò dai gerarchi della Repubblica di Salò, che stavano per trasferirlo a Venezia; lo avrebbero consegnato con ogni probabilità ai nazisti. Non solo: i due amanti salvarono molte vite, proprio come accade in Schindler’s List. (4) Infatti, dopo essere stati testimoni di una deportazione di ebrei, essi decisero di scritturare moltissime comparse tra partigiani, ebrei e intellettuali. Tutta la troupe rimase chiusa per settimane dentro la Basilica di San Paolo fuori le mura, che divenne il set cinematografico e il rifugio sicuro per più di quattrocento persone. Quella convivenza era un misto di finzione, goliardia e attesa spasmodica dell’arrivo degli Alleati (lascio immaginare al lettore i particolari). Un giorno un uomo in tonaca color cremisi fece irruzione nella Basilica protestando per quel contegno indecoroso, ma fu scambiato per una comparsa in abito da scena. Solo De Sica si inginocchiò: aveva subito riconosciuto monsignor Montini, il futuro Papa Paolo VI. Il regista continuò le riprese, fino a fingere di girare anche quando non aveva più pellicola a disposizione. All’arrivo degli americani, il 4 giugno ‘44, congedò tutti e, a chi gli chiedeva se avesse inserito il miracolo, rispose di no: il suo amico Zavattini, ateo e comunista, non l’aveva voluto mettere nel copione. Senza chiedere il permesso a nessuno. (4) In un certo senso Vittorio e Za (5) avevano già operato un vero “miracolo”.
Volendo ora tratteggiare in poche righe il rapporto di Vittorio con suo padre, riporterò tre episodi, l’ultimo dei quali riguarda il film Umberto D., uno dei suoi massimi capolavori. (6) Un caso riuscito di trasmissione tra generazioni.
1) In un bel libro autobiografico, il regista narra il consiglio che ricevette dal padre, impiegato di banca, circa la scelta della carriera del figlio. Appena diplomatosi in ragioneria, Vittorio aveva fatto domanda per entrare anch’egli in Banca d’Italia. Ma non ne era convinto. Così, quando un amico gli disse che stava per “entrare in Arte”, senza capire bene che cosa ciò significasse, egli gli chiese di essere presentato ad un’attrice russa che cercava attori per la sua compagnia teatrale. Ottenuta l’offerta di lavoro, si precipitò dal padre: «“Che cosa mi consigli? La Banca o “entrare in Arte” con un’attrice russa che mi offre per ora un posto di comparsa?”. Mio padre tacque un momento, poi calmo, sicuro di sé mi disse: “Entra in Arte.”» (7)
2) Qualche anno dopo, nel 1930, Vittorio recitava in un teatro di una città del Nord Italia. Il padre lo andò a trovare, ma non poté rimanere per assistere allo spettacolo, dovendo rientrare a Roma per lavoro. Salito sul treno, Umberto si sistemò in terza classe. Mentre il treno partiva, Vittorio dalla banchina offrì del denaro al controllore perché gli trovasse posto in seconda. All’improvviso, il padre gli gridò con forza dal finestrino: «Fatti la fama e futtetenne!». (8)
3) Il film Umberto D., girato nel 1952 con attori non professionisti, (9) inizia con una scritta in sovraimpressione: «Dedicato a mio padre». Non è una dedica qualunque: attesta pubblicamente che quel mestiere, cui il padre l’aveva avviato, era ormai diventato suo. Il protagonista è un pensionato che non ha più un tetto né un letto né una lira per mangiare, ed è tentato di farla finita, dopo aver condotto tutta la vita in tono minore. Infatti, costretto a vendere i suoi libri ad una bancarella, confessa che non li ha mai aperti «per non rovinarli». (10) Umberto D. fu all’epoca al centro di polemiche e censure, mentre di recente la rivista Time lo ha annoverato tra i cento migliori film di tutti i tempi, accanto ad altre tre sole pellicole italiane. Il processo a questo film resta ancora tutto da istruire. (11) Per nulla melanconico, il protagonista non vuole affatto suicidarsi: vorrebbe invece trovare chi investa ancora su di lui, cioè un altro essere umano finalmente imputabile. Ma non ne trova. (12) Chi è dunque Umberto D.? Rispondo: è un orfano, la cui esistenza rappresenta un sospeso. Il regista rivolge l’accusa di questo sospeso a tutta la società civile, e in ciò non ha torto. Tuttavia resta in ombra la delusione che doveva avere provato nella vita reale per il proprio padre, l’impiegato Umberto D(e Sica). Un’esperienza comunissima, peraltro. Vittorio risolve il sospeso salvando il proprio padre e riconoscendogli il merito di averlo avviato a quella carriera artistica che era già stata la passione di Umberto. In questo modo Vittorio è stato per una volta il padre di suo padre. Come accadde a Freud nei confronti di suo padre, e a quel bambino che conosciamo come il piccolo Hans. (13)
«Il padre – come scrive G.B. Contri – non è quello che fa promesse, ma quello che fa eredità (…). Se si sommano: 1) l’introduzione del desiderio di ricchezza che si chiama correntemente stare bene, e 2) l’ampliamento di questa espressione a tutti i significati di stare bene, si ottiene la definizione di salute o sanità psichica. Il concetto di Padre ne è il fondamento». (14)
Un uomo – ma anche una donna – è padre solo se è davvero immune dall’invidia, sia verso i propri figli che verso il proprio padre. «In tre è meglio» è il titolo di una recente intervista a Manuel e Christian: allude al loro rapporto con la sorella maggiore Emi, la figlia che Vittorio ebbe da un precedente matrimonio. Ma l’ambito di validità di questa frase è più ampio: essa non riguarda solo i fratelli.
NOTE
1. Cfr. l’intervista a Manuel e Christian De Sica realizzata da Corrado Ruggeri:
http://www.leiweb.it/a/2013/christian-manuel-emi-de-sica-401261766954.shtml
2. L’episodio è narrato in modo molto efficace sia da Manuel (op. cit. pagg. 58-59) che da Christian (op. cit. pagg.118-123), cui ho attinto liberamente e copiosamente, non potendo riportare l’intero capitolo (poche pagine vivide e toccanti) per ovvie ragioni di spazio. Entrambi sono documenti preziosi, cui rinvio per una informazione più completa.
3. La porta del cielo (Italia 1945, b/n, 90’), regia di V. De Sica, sceneggiatura di V. De Sica, C. Zavattini, D. Fabbri, A. Franci, C. Musso.
4. Nel film «i malati si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire.», da: Christian De Sica, Figlio di papà, Mondadori, 2008, pag. 122.
5. “Za” era il soprannome con cui gli amici chiamavano Cesare Zavattini.
6. Umberto D. (Italia 1952, b/n, 89’) regia di V. De Sica, sceneggiatura di C. Zavattini, con Carlo Battisti, Mara Pia Casilio, Lina Gennari.
7. Vittorio De Sica, La Porta del Cielo. Memorie 1901-1952, Avagliano, Roma, pagg. 50-51.
8. Manuel De Sica, Di figlio in padre, Bompiani, 2013, pag. 87.
9. Carlo Battisti (1882-1977) era uno studioso di dialettologia italiana, di latino e della lingua etrusca. Dopo essere stato libero docente presso l’Università di Vienna, divenne professore di glottologia presso l’Università di Firenze, nonché Socio dell’Accademia della Crusca e autore di numerose e autorevoli pubblicazioni scientifiche. La sua interpretazione in Umberto D. (l’unica sua esperienza di attore) è, a detta di tutti, perfetta.
10. Alla serva adolescente rimasta incinta senza nemmeno sapere di chi (uno dei due soldati che la ragazza frequenta), Umberto dice: «Queste cose accadono quando non si sa la grammatica: la gente se ne approfitta!».
11. Giulio Andreotti, che nei primi anni ’50 era Sottosegretario al Turismo e allo Spettacolo, attaccò duramente film e regista: «Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale». Anni dopo lo stesso Andreotti mitigò molto questa posizione, riconoscendo al regista il suo valore. Si veda anche:
http://archiviostorico.corriere.it/1994/settembre/04/via_quella_censura_Umberto__co_0_94090411322.shtml 12. Il top del dramma è tutto racchiuso nell’ultimo minuto del film, allorché Umberto cerca di uscire dalla vita in punta di piedi (così il regista ce lo rappresenta nell’atto di lasciare la camera in affitto che non può più pagare). Il cagnolino gli sfugge dalle braccia l’attimo prima che il treno li investa: tanto basta per decidere (niente affatto «istintivamente») di mettersi a cercarlo. Si imbatte però con sorpresa e amarezza nella istintiva sfiducia del cane. La tragedia è evitata nel momento in cui il cagnolino torna a giocare con il vecchio che gli lancia una pigna: Umberto non sa dove dormirà, né come e se mangerà, ma non è più catturato dal pensiero del suicidio.
13. Cfr. in questa stessa rubrica Un Edipo senza confitti, aprile 2013, nota 3. http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=32772
14. G.B. Contri, Il padre, il sessantotto e J. Lacan, in: Pensare con Freud, a cura di G.M. Genga e M.G. Pediconi, Sic Edizioni, 3^ ed, 2008. pag. 110.
Illustrazioni di Chiara Ciceri