Qualis pater talis filius
«Ma il succo del romanzo non sta tanto nel tema di Rotschild, quanto nella profonda trasformazione che subisce il fanatico proponimento di Arkadij dinanzi alle esperienze della vita, sotto l’influsso della passione e specialmente dell’aspra lotta spirituale col padre.» (corsivo mio). Così scrive A. M. Ripellino nella sua densa prefazione.
A ben vedere, la lotta di Arkadij riguarda anzitutto l’ambivalenza dei propri sentimenti nei confronti del padre (Versilov, il proprietario terriero di cui è figlio illegittimo), prima ancora che gli atti rivolti verso costui. (7) Infatti Arkadij viene a trovarsi in possesso di una lettera che, se fosse resa pubblica, potrebbe salvare il padre o decretarne la rovina. Ecco un test: se tu avessi ventun anni e il destino di tuo padre fosse nelle tue mani, che faresti?
Per centinaia di pagine, sembra che i due giochino “al gatto e al topo”: l’intreccio si infittisce e Versilov diviene ben presto il coprotagonista di tutta la storia. Anch’egli del resto, nonostante sia ormai adulto, mostra di essere rimasto un adolescente, anzi ne rappresenta in un certo senso il prototipo. Non solo: è un diseredato, il che ne accentua il conflitto con il figlio. Ad abundantiam, i due scoprono di essere innamorati della medesima donna, (8) il che non impedisce loro di lasciarsi andare a fitte conversazioni sull’essenziale e su «argomenti astratti e i più elevati problemi che però, cosa strana, non avevano nulla a che fare con la vita quotidiana».
Versilov confessa al figlio di nutrire a sua volta un ideale, ispiratogli da un certo quadro di Claude Lorrain, Aci e Galatea, che egli chiama L’età dell’oro. (9) Esso rappresenterebbe il paradiso terrestre, l’alba e «il grandioso errore dell’umanità». L’amore per tutta l’umanità: ecco la vocazione cui è chiamato ogni nobile russo. Vi si avverte l’eco dello stato di natura di Rousseau, anzi il suo superamento: dopo lotte ed errori, «gli uomini comprendono d’essere rimasti completamente soli e sentono di essere orfani e derelitti (…) rimasti orfani, si sarebbero subito stretti l’uno all’altro, vicini vicini e con più amore».
Dopodiché, tutti i protagonisti corrono imprudentemente e, vien da dire, coerentemente, verso il tragico epilogo, segnato per alcuni dal suicidio (immancabile nella letteratura russa!) e per altri, come Versilov, dalla demenza. (10) E Arkadij? L’adolescente ne uscirà normalizzato, ovvero – se posso dir così – poco men che lobotomizzato: riprenderà gli studi e cercherà un lavoro come tutti, lasciandosi mantenere da Tat’jana Pavlovna, donna che «sostiene una strana parte» in tutti gli snodi importanti del romanzo e che impersona in certo senso l’intera Russia.
Dostoevskij chiamato alla sbarra
Freud dedica un breve saggio (Dostoevskij e il parricidio, 1927) al grande scrittore russo, (11) collocandolo tra i vertici della letteratura universale insieme a Shakespeare. L’imputazione principale che gli rivolge è la seguente: «Dopo le lotte più violente per riconciliare le pretese pulsionali dell’individuo con le esigenze della comunità umana, egli finisce con l’approdare a una posizione retrograda (…). E’ qui il punto debole di questa grande personalità. Dostoevskij ha mancato di diventare un maestro e un liberatore dell’umanità, si è associato ai suoi carcerieri (…). Probabilmente è dimostrabile che fu la sua nevrosi a condannarlo a questo fallimento. La profondità della sua intelligenza e l’intensità del suo amore del prossimo l’avrebbero destinato a percorrere una via diversa, a un’esistenza da apostolo.» Freud ha ragione: la fine dell’800 decretò infatti la morte del padre nella cultura, come pure la sua banalizzazione e dispersione in una ridda di stereotipi psicosociologici in cui l’invenzione dell’adolescenza svolse una grande parte.
Il successo di Dostoevskij
Molte sue opere conobbero presto una grande diffusione. Nel 1879, due anni prima della morte, egli fu invitato al Congresso letterario internazionale di Londra, all’epoca presieduto da Victor Hugo. Non potendo recarvisi per le già precarie condizioni di salute, il Congresso lo nominò Membro del Comitato d’onore. Nel 1884, appena tre anni dopo la morte, venne pubblicata la prima edizione integrale delle sue opere, in 14 volumi.
A me Dostoevskij piace: l’ho letto quasi tutto, benché non sistematicamente, ancor prima di imbattermi nelle pagine di Freud, il cui giudizio severo mi ha obbligato in un certo senso a ripercorrere le mie letture, ma non ha affievolito il mio interesse. Dostoevskij, a detta di Freud, «conserva tratti abbastanza sadici, che traspaiono nel modo in cui egli, autore, tratta i suoi lettori.» Vero. Forse per questo alcuni miei amici non lo amano. Eppure lasciarsi trasportare tra un samovar e una corsa in slitta sulla Prospettiva Nevskij (la Via Veneto di San Pietroburgo) è a dir poco avvincente.
NOTE
7. Su questo punto è facile accostare il giovane Arkadij e uno dei pazienti descritti da Freud in Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi), 1909, OSF vol. VI.
8. Situazione che, com’è noto, l’autore riproporrà pochi anni dopo nel suo ultimo capolavoro, I Fratelli Karamazov, 1879-1880.
9. Sorvolo sulla forte impressione che il quadro fece sullo stesso Dostoevskij: molto è stato scritto al riguardo. Circa l’elaborazione del valore della sofferenza, ho trovato prezioso il breve testo di L. F. Földényi Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, trad. it. di A. Rényi, ed. Il melangolo, Genova, 2009. Da leggere.
10. La confusione intellettuale e morale, di cui l’intera vicenda è impregnata, trascina con sé anche la dottrina cristiana, come in altre opere dell’ultima produzione dostoevskijana. Ad esempio, la madre di Arkadij e serva di Versilov, si rivolge al figlio con queste parole: «Cristo perdona tutto, perdona anche la tua bestemmia, anche colpe peggiori delle tue. Cristo è il padre: non chiede nulla e splenderà anche nel buio più fitto.» (corsivo mio). Gesù Cristo non è più il figlio, ma il padre: una rivisitazione del cristianesimo che dovrebbe far pensare. Del resto, il “buio più fitto” evoca l’assenza di ogni barlume di giudizio.
11. Dostoevskij e il parricidio, in: S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. I, Boringhieri, pagg. 321-343.