Quando ho appreso la notizia della sua morte, ho capito meglio che cosa mi aveva spinto ad andare con mia moglie a Broadway, il 25 gennaio 2003. Con l’aiuto degli amici Luca Flabbi e Anna Fruttero, all’epoca residenti a New York, realizzai uno dei miei «sogni»: vedere recitare Paul Newman dal vivo. Era la vigilia del suo 78° compleanno, ed era in scena Our Town, Piccola Città, di Thornton Wilder. Fino ad ora non vi avevo fatto caso: solo pochi mesi prima del mio blitz newyorkese avevo perso mio padre. Non che gli assomigliasse: a mio padre era stata attribuita, con ragione, una qualche somiglianza con Clark Gable. Ma è vero che, quanto ai padri, uno li cerca e li trova dove e come può.
Un passo indietro. Poco più che sedicenne, vidi per la prima Paul Newman nel film Un uomo oggi(titolo originale WUSA, 1970, regia di Stuart Rosenberg). Era appena uscito nelle sale italiane. Pressoché sconosciuto, fu praticamente un flop ma, come appresi in seguito, era co-prodotto dallo stesso Newman, che amava moltissimo questo film.
Il protagonista di WUSA non si discosta dal «tipo» del «bastardo pronto a vendersi per il successo» (come ha scritto M. Porro su La Repubblica), che Newman ha portato sugli
schermi in moltissimi film più fortunati di WUSA. Qui è un anchorman al soldo di una radio statunitense di estrema destra, che si rende complice di un omicidio in uno stadio gremito di folla dove viene linciato, durante la sua trasmissione in diretta, un assistente sociale (Anthony Perkins) dedito alla causa dei più deboli. La malafede del protagonista spinge al suicidio la sua donna (Joanne Woodward), con cui si era appena legato. Alla fine, tornando dal cimitero, dice: «Sono stato là: sono un superstite». Il titolo del film doveva essere appunto The Survival. A due anni dal ’68, non era una piccola intuizione.
Negli stessi anni mi ero imbattuto in questi versi di un certo Michajlov, un autore del Samizdat russo, che ebbe una certa fama anche da noi: «Se non sei stato in campo di concentramento, se non t’hanno torturato, se il tuo miglior amico non ha scritto una lettera anonima contro di te, se non sei strisciato fuori da un mucchio di cadaveri, (…) se non hai ammazzato l’amata eseguendo l’ordine di un estraneo (…) e non giuochi nemmeno a basketball, allora non sei un uomo del XX secolo».
Ecco la cifra del personaggio creato da Newman e proposto in quasi tutti i suoi film: l’individuo in bilico tra cinismo e ri-inizio, un crinale che si dipana ben oltre i ristretti limiti della coscienza, meno ancora di quella rivoluzionaria, se mai questa è esistita. E’ un ritratto in cui non c’è più posto per l’ingenuità (il non sapevo o non volevo che Freud imputa alla nevrosi). Dietro la mimica inconfondibile di Newman, dietro la sua giacca gettata pigramente sulle spalle insieme ai delitti di cui si è macchiato – è la scena finale di WUSA - il pensiero si riapre alla via della ricerca dell’innocenza: possibilità appena intravista, ma reale e indelebile.
Oggigiorno, se un uomo non vuole mentire a se stesso, non può contare su nulla di più.
Questo è stato il suo modo di dirci che siamo tutti al day after, senza il minimo cedimento da parte sua al genere pulp. Caso quasi unico, per Newman l’uscita dall’inibizione psicologica non inaugura la catena delle perversioni (letteralmente: sangue e deiezioni), cui purtroppo ci ha abituati il cinema, non solo americano, negli ultimi trent’anni. Pochissime le eccezioni, tra cui Woody Allen e Dustin Hoffman.
Ora che conosco gran parte della sua produzione cinematografica, sono convinto che in WUSANewman abbia espresso al meglio il cosiddetto «segreto» del suo fascino. Il vero segreto. Perché ce n’è anche uno falso, di cui egli era ben consapevole: i suoi occhi azzurri, di cui purtroppo hanno scritto in questi giorni la maggior parte dei critici. Il falso segreto è facile da svelare: Newman era daltonico! Viene da chiedersi come abbia fatto a guidare auto da corsa per decenni, fino a vincere almeno due competizioni, anche pochi anni orsono.
Attribuire il successo di un attore ai suoi occhi azzurri sarebbe come voler credere che il velocista Carl Lewis abbia conquistato il suo record perché era un… nero: i neri sono molti
milioni, ma pochissimi corrono i 100 metri in una manciata di secondi. E in effetti, con una buona battuta, una volta Newman disse: «Sulla mia tomba vorrei che scrivessero: qui riposa un uomo che divenne finalmente qualcuno quando i suoi occhi diventarono castani»!
Aveva capito tutto della vita, Paul Newman: ecco perché è stato un uomo raro, anzi rarissimo.
Sposando Joanne Woodward, nel ’58, le regalò una tazza d’argento che recava incisa la scritta: «Hai voluto a tutti i costi abbarbicarti ad Apollo; se ti capiterà di non riuscire a
digerirlo, questa ti servirà». E a chi gli chiedeva come mai si accontentasse di una sola donna potendo andare con tante, rispondeva: «(Joanne) ha sempre accettato incondizionatamente le mie scelte e i miei comportamenti, compresa la mia passione per le auto da corsa, che lei deplora. Questo è vero amore. Noi due non abbiamo niente in comune, se non il fatto che ci capita di fare film insieme; ognuno ha i suoi amici e i suoi interessi, non ci soffiamo sul collo, ci sentiamo liberi: sono le nostre distanze a unirci». E’ la migliore apologia del matrimonio che io conosca, scarsissimamente concepita e realizzata. Solitamente occorrono anni di cura psicoanalitica perché un individuo arrivi a pensare in questo modo il rapporto uomo-donna.
Alla domanda: «Le piacerebbe essere immortale?» Newman rispose: «Devo pensarci…io gioco a poker, ma mi piace giocare a carte scoperte. L’immortalità dell’uomo non sarebbe un valore universale: chi sta bene starebbe ancora meglio e quelli che stanno male starebbero ancora peggio. No, no… niente immortalità!». Il nesso tra l’individuo e l’universo faceva parte del suo bagaglio intellettuale, a prescindere dal suo essere credente o meno. La prima questione è sempre la facoltà di desiderare, anche quando si tratta della vita eterna.
Personalmente, l’ho imparato dallo psicoanalista Giacomo Contri (anch’io gioco a carte scoperte), e ho constatato che è una facoltà espunta o decaduta in tutta la patologia psichica.
Ha detto Robert Forrester, vicepresidente della Newman’s Own Foundation, l’ente da lui realizzato a favore dei bambini gravemente malati: «Il dono di Paul Newman era la
recitazione. La sua passione le corse. Il suo amore la famiglia e gli amici. Il suo cuore e la sua anima erano dedicati a rendere il mondo un posto migliore». Ecco un pensiero paterno, impossibile a chi non si sia messo anzitutto nella posizione di figlio, cioè di ricevente un’eredità, di qualunque genere.
A suo modo, Newman ha riproposto tutto ciò fino alla fine. Nel suo penultimo film, Per amore… dei soldi (Where the Money is, 2000), è l’anziano partner e complice di una giovane e seducente Linda Fiorentino: il tono scanzonato di questa commedia, inneggiante al furto (!), gli serve in realtà per trattare un tema pressoché tabù: il rapporto padre-figlia. E nel successivo, Era mio padre (The Road to Perdition, 2002, con Tom Hanks), criminalità e tragedia fanno da sfondo all’esame acuto e severo del rapporto padre-figlio: lo stesso esame cui egli stesso non poté sottrarsi alla morte per overdose dell’unico figlio maschio, nel ’78.
Per accomiatarsi, Newman ha voluto che la notizia della sua morte fosse divulgata dapprima dal circuito delle opere di beneficenza a lui collegate, e solo diverse ore più tardi dal suo press-agent: un atto e un giudizio molto chiari.
Paul Newman era tutto questo. Ed è per questo che, ben oltre la via dell’identificazione (che di per sé è solo road to perdition) un po’… era mio padre.
L’omaggio di un freudiano a Paul Newman
Pubblicato in Father & Son