Intraprendenti: padre e figlio nel film “La lunga estate calda” (1958)[1]

La lunga estate calda

L’occasione per riflettere su La lunga estate calda[2] è stata l’aver invitato amici e colleghi al cinema, il mese scorso, per festeggiare il mio sessantesimo compleanno. Ho proposto loro questo film a motivo dell’idea centrale che veicola e nonostante il fatto che lo stile in cui fu realizzato nel 1958 (quasi sessanta anni fa) appaia oggi datato. Tratto da tre opere letterarie di William Faulkner,[3] il film risulta completamente diverso da esse.

 

L’IDEA CENTRALE…

Procediamo con ordine. Il film mette in scena un passaggio generazionale coronato da successo, in cui un giovane non è figlio in senso biologico, ma diventa erede in forza della posizione che sa guadagnarsi, in un contesto familiare e sociale cui egli inizialmente è del tutto estraneo.

Un cenno alla trama: «Ben Quick, un giovane con un passato di piromane, trova lavoro in una fattoria, conquistando la fiducia del padrone e, dopo qualche schermaglia, l’amore della figlia. Ma il figlio maschio, invidioso del favori paterni, cerca di farlo linciare dalla folla.» (Mereghetti).[4]  Immancabile l’happy end: per il cinema classico di quegli anni era d’obbligo. Eppure la semplicità della caratterizzazione dei personaggi è solo apparente: i dialoghi ce li mostrano dotati di una loro vita psichica, o pensiero:

1)  Il protagonista Ben Quick, nome ebreo e cognome che significa “svelto”, ha coraggio da vendere, anche nella confessione finale in cui denuncia il falso stereotipo secondo cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Per questa interpretazione Paul Newman vinse la Palma d’Oro a Cannes.

2) Il padre-padrone Will Varner (un Orson Welles bizzoso e ingombrante) non è così orso e gretto come può sembrare, e non vede l’ora di associare a sé qualcuno che sappia proseguire e incrementare i suoi affari: possedimenti terrieri, emporio, banca, etc.

3) Sua figlia Clara (Joanne Woodward) aspira all’unico destino che la società riserva a una giovane ventitreenne con un cognome importante, eppure non acconsente a sposare l’uomo cui il padre vuole maritarla finché il giovane non si mostra capace di compiere una mossa libera nei suoi confronti e tenere testa al “vecchio”.

4) Jody Varner (Anthony Franciosa), il figlio, è meno rapa di quel che sembra, mentre patisce la concorrenza del nuovo arrivato fino a nutrire un pensiero omicida e parricida. Si riavrà in tempo, per tornare dalla sua bella Eula (Lee Remick).

Il titolo, La lunga estate calda, allude sia alla fama di piromane da cui Quick tarda a liberarsi, sia alle pretese insopprimibili della vita sessuale, che in ciascuno dei protagonisti stenta a trovare una via soddisfacente.

Quanto al romanzo da cui il film è tratto (The Hamlet), è sorprendente come il titolo (in italiano: villaggio o frazione) richiami invece il Principe di Danimarca, Amleto. Non so nulla circa la scelta shakespeariana del nome Hamlet, ma certo Faulkner, e poi gli sceneggiatori, non potevano ignorare il rinvio alla celebre tragedia e allo spettro del padre.

… HA UNA FONTE EBRAICA

Il film è frutto dell’affiatata collaborazione di affermati artisti e cineasti della Hollywood di quegli anni. Erano tutti ebrei: il regista Martin Ritt, il produttore Jerry Wald, gli sceneggiatori Irving Ravetch e sua moglie Harriet Frank J., e lo stesso Newman, che aveva ascendenze ebraiche in famiglia.[5]

L’idea economica e propulsiva presente nel film, ma del tutto assente in Faulkner, è presto detta: un padre può compiacersi del figlio. Semplice. Eppure è un’idea che nella modernità è stata censurata e che, come tale, ha attraversato sottotraccia tutto il Novecento, fino ad essere un tabù ancora oggi. Al sessantaquattrenne Will Varner il giovane e intraprendente Ben Quick piace, da subito. E soprattutto nell’epilogo la storia si rivela più vicina al libro della Genesi che ad una commedia romantica: quando Quick sembra deciso a rompere, non senza ragione, il sodalizio con Varner, questi sbotta: «L’ho messo nel giardino dell’Eden, gli ho fatto inzuppare il suo pane nel miele… e lui ha avuto la faccia tosta di dirmi di no!»[6] Ecco un padre, ed ecco un tema che ebrei e cristiani farebbero bene a coltivare e rinnovare senza posa. Così fa G.B. Contri quando scrive: «‘Padre’ ha un significato se e solo se significa l’operare ereditario, ossia la fonte che fa erede un altro grande o piccino, maggiore o minore, che ne acquisisce possesso legittimo.»[7]
Dall’altra parte, Ben Quick si presenta come un figlio esente da quelle obiezioni che Freud individua come tipiche del figlio maschio: la paura, l’arroganza e l’incredulità verso il padre.[8]

 

… E UNO SPUNTO IN WILLIAM FAULKNER

Non so che cosa avrebbe pensato Cesare Pavese se avesse potuto vedere La lunga estate calda. Ma non fu così: Pavese si tolse la vita nel ‘50, il film fu presentato a Cannes nel ‘58. Me lo chiedo perché egli tradusse e pubblicò nel ‘42 The Hamlet (Il borgo).[9] Il suo legame, o forse il debito, con Faulkner era intenso, a motivo di quella “trasfigurazione” che accomunava entrambi nel trattare la vita delle campagne che conoscevano bene: il cuneese e lo Stato del Mississippi.
Mentre scrivo, ho davanti a me una locandina che accompagnò l’uscita del film negli USA. Traduco: “La gente di Faulkner, la lingua di Faulkner, il mondo di Faulkner!” Ma non è così.
Un solo esempio: uno dei protagonisti del romanzo è il cinico Flem Snopes, capostipite di una genìa di mafiosi, un “mostruoso Benjamin Franklin”![10] Invece Ben Quick, che ne è la trasposizione nel film, sa coniugare intelligenza e affari. Il salto da Snopes a Quick è netto, il che significa che il giudizio degli ebrei di Hollywood sull’intera società statunitense era ben diverso da quello di Faulkner. Quest’ultimo denunciava nel romanzo “l’avarizia sposata alla pura animalità”,[11] mentre nel film non vi è alcuna animalità. Al contrario, il successo di Quick libera gli abitanti del borgo dal loro gretto provincialismo. Il passaggio generazionale narrato nel film addita a tutti la possibilità di uscire da quella psicologia del gruppo che conosce solo la giustizia del linciaggio. Pavese ne sapeva qualcosa: mentre lavorava alla traduzione di The Hamlet, dava alle stampe Paesi tuoi: brutta storia di un incesto in cui la vittima viene uccisa a forconate.[12]

La mia ipotesi è che idea centrale de La lunga estate calda abbia una fonte ebraica e appena uno spunto in Faulkner.[13] Chi ha scritto, diretto, interpretato e prodotto questo film aveva qualcosa da dire e l’ha detto: a tutto il mondo e senza timidezze nei confronti dell’autore del romanzo, che pure ne ha tratto maggiore notorietà. Ben fatto.

 


[1] Articolo pubblicato anche sul sito della Società Amici del Pensiero, www.societaamicidelpensiero.com, e nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it.

[2] The Long Hot Summer, USA 1958, colori, 117’, regia di Martin Ritt, con Paul Newman, Joanne Woodward, Anthony Franciosa, Orson Welles, Lee Remick, Angela Lansbury.

[3] W. Faulkner (1897-1962) fu uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso e Premio Nobel per la letteratura nel 1949. Molti dei suoi romanzi e racconti sono ambientati nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, nello Stato del Mississippi. Tra questi The Hamlet, Burn Burning e Spotted Horses, dai quali è tratto il film di Ritt. Segnalo l’interessante saggio introduttivo di R. Ceserani («Tre racconti giudiziari» di W. Faulkner) in Cavalli pezzati, Sellerio, 1997. Un commento a parte meriterebbero altre opere faulkneriane, come ad esempio As I Lay Dying (Mentre morivo, 1930), e Absalom! Absalom! (1936).

[4] P. Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini&Castoldi.

[5] Non solo. Nello stesso anno un altro film era in produzione a Hollywood: La gatta sul tetto che scotta, anch’esso opera di un regista ebreo, Richard Brooks, che ne scrisse anche la sceneggiatura. Anche in questo caso ne risultò un film incentrato sul rapporto padre-figlio molto diverso dall’originale, l’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams. Il film non piacque a Williams, mentre sembra che Faulkner abbia gradito il film di Ritt.

[6] Dalla sceneggiatura in lingua originale: «I put him in the Garden of Eden, let him dip his bread in honey… and he’s got the all-out gall to tell me no!» Commovente la scena in cui Varner, che non ha discendenti perché la figlia e Quick non si relazionano “per automatismi”, commenta la nascita di un puledro: «Meno male che a casa mia qualcosa è nato!»

[7] G.B. Contri, Padre, in: L’Ordine giuridico del linguaggio, Sic Edizioni, 2003.

[8] S. Freud, Le prospettive future della terapia psicoanalitica (1910), in: Opere di Sigmund Freud, vol. VI, Bollati Boringhieri, pag. 200. Aggiungo che tra i ringraziamenti che ho ricevuto dopo la proiezione, vi è questa pertinente battuta di una mia giovane ospite: «Ad averne di padri che vogliono combinarti un matrimonio con un uomo così!»

[9] W. Faulkner, Il borgo, trad. C. Pavese, Mondadori, 1942.

[10] Th. G. Bergin, Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi, Bompiani, vol. I, 1983, pag. 519.

[11] Ivi.

[12] Non solo: sceneggiatori e regista hanno fatto piazza pulita di molti altri ingredienti del romanzo di Faulkner, cancellando ogni traccia di altri personaggi, come il povero idiota che fa sesso con una mucca, o la ragazzina dalle forme prorompenti descritta come un’autistica depravata, «immobile, priva apparentemente di pensiero». Via anche l’alone mistico intriso di mitologia greca, che non poteva appartenere alla vita e al lavoro dei contadini del Mississippi!

[13] In un’intervista a tutto campo, pubblicata qualche anno fa sul Michigan Quarterly Review, gli sceneggiatori dichiarano che nel film vi è forse il dieci per cento dell’opera di Faulkner. Qui il link all’intervista: Hud: A Conversation with Irving Ravetch and Harriet Frank, Jr.

Pubblicato in Father & Son