Nell’aprile scorso, trovandomi ad Atlanta (Georgia) per un congresso, ho avuto l’occasione di imparare qualcosa circa la figura e l’opera di Martin Luther King.[1] Ignoravo che fosse nato ad Atlanta, mentre ricordavo il suo assassinio, il 4 aprile 1968: allora frequentavo la seconda media e l’insegnante di lettere ce ne parlò in classe, come usava fare per i fatti più importanti (la guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi, lo sbarco sulla Luna, etc.: era una buona scuola, la sua).
Penso che oggi in Italia, tranne forse poche eccezioni, non abbiamo un’idea della vastità e drammaticità del problema dell’integrazione razziale negli USA, anche se la sua attualità ci viene riproposta dalle notizie dei fatti di sangue che si susseguono continuamente, fino a questi ultimi giorni.
La casa natale di M.L. King, il ranger e i tre termometri
Il M.L. King National Historic Site fu edificato con denaro delle famiglie King e Kennedy. Vi feci visita con Vaia Tsolas e Michael Civin, psicoanalisti residenti a NY, la loro figlia Ariadne di sette anni, e gli amici e colleghi italiani Gabriella Pediconi e Luca Flabbi. Eravamo pressoché gli unici bianchi in un gruppo di visitatori di colore. La nostra guida era un ranger afroamericano:[2] un omone decisamente sovrappeso che, dopo essersi presentato scherzando sul fatto che si chiamava “Bruce Lee” come il celebre attore campione di kung-fu, si mise a chiedere a ciascuno il nome, il Paese di provenienza e il motivo della visita. Rimanemmo tutti molto colpiti dalla risposta di Michael, il marito di Vaia: «Quando ero bambino, nell’Oregon, i miei genitori dovettero portarmi al pronto soccorso dell’ospedale. Là vidi tre termometri appesi al muro: sotto il primo era scritto “per la temperatura orale”; sotto il secondo “per la temperatura anale” e sotto il terzo “per i negri”. Ne chiesi la ragione ai miei, ma essi non seppero rispondermi in modo soddisfacente. Per questo sono qui.»
Al termine della visita, mentre ci incamminavamo verso il metrò, fummo affiancati da una grossa auto nera: Bruce Lee ci invitava a salire per offrirci un passaggio. Michael sedette al suo fianco e il ranger gli disse: «Quello che hai detto circa i tre termometri, non dimenticarlo mai». E Michael: «Lo porterò sempre con me.» Anch’io, ora.
Il discorso di M.L. King alla Marcia su Washington
M. L. King pronunciò il suo discorso più famoso, I have a dream,[3] davanti al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto 1963, al termine della celebre marcia cui parteciparono circa duecentocinquantamila persone, tra cui molti bianchi e personalità di rilievo. Giustamente definito “storico”, quel discorso è stato studiato e commentato da moltissimi politologi, sociologi, filosofi e linguisti, molti dei quali segnalano il dato che riporterò tra poco.[4] Non tutti, però: è il caso dello psicologo Adam Grant, nella sua conferenza Le abitudini sorprendenti dei pensatori originali, in cui egli tesse le lodi dell’improvvisazione con queste parole:
«Che dire di Martin Luther King, Jr.? La notte prima del più grande discorso della sua vita (…) rimase sveglio fin dopo le tre di notte per riscriverlo. Seduto in mezzo al pubblico in attesa del suo turno per salire sul palco, è ancora intento a scarabocchiare note e cancellare righe. Ma quando sale sul palco parla per undici minuti, poi mette da parte il discorso preparato per pronunciare le quattro parole che hanno cambiato il corso della storia: «Io ho un sogno». Non era nel copione. Rinviando il compito di finalizzare il discorso fino all’ultimo minuto, egli rimase aperto alla più ampia gamma di possibili idee. E siccome il testo non era stato scolpito nella pietra, ebbe la libertà di improvvisare.»[5]
In realtà, M.L. King aveva giù usato la frase ‘I have a dream’ in altri discorsi: essa faceva parte del suo repertorio, era uno slogan per dire il suo progetto politico (idea, più che sogno). Ma perché cambiò quel testo, che pure aveva preparato con i suoi più stretti collaboratori?
Accadde che tra i presenti vi era Mahalia Jackson, la più grande interprete di spirituals, detta “la regina del Gospel”. Era in prima fila, sotto il palco; M.L. King l’aveva già invitata a cantare all’inizio della marcia, e ad un certo punto, mente egli parlava, Mahalia gli gridò: «Digli del sogno, Martin, di’ loro del tuo sogno!». Chi aveva collaborato a redigere il discorso non se ne ebbe a male, si sapeva che Martin Luther e Mahalia erano amici: quando egli tornava stanco da qualche viaggio, capitava che la chiamasse e le chiedesse di cantargli una canzone al telefono.[6]
Vocazione indefettibile, tra amici e nemici
Un episodio merita di essere accostato, per contrasto, a quello appena narrato. Cinque anni prima, il 20 settembre 1958, in una libreria di Harlem, M.L. King stava autografando le copie del suo primo libro appena stampato. Una donna di colore, Izola Ware Curry, gli chiese se egli fosse davvero M.L. King e all’improvviso lo colpì al petto con un tagliacarte affilato. Una donna di colore! La ferita si rivelò grave: la lama si era fermata vicino all’aorta e dovette essere rimossa con un delicato intervento chirurgico. La donna fu poi diagnosticata come paranoica e venne internata in un manicomio criminale. Durante la degenza, M.L. King ricevette molte lettere da tutto il mondo. Gli scrissero, tra gli altri, il Presidente e il Vice-Presidente degli Stati Uniti. Ma ancor più lo colpì la lettera di una bambina bianca di nove anni, la quale si rallegrava che egli fosse salvo; aveva letto che se avesse starnutito mentre aspettava di essere operato, avrebbe potuto morire: «Ti scrivo solo per dirti che sono contenta che non hai starnutito.» Una giovanissima amica dalla pelle bianca: la lettera rappresentò moltissimo per M.L. King, come egli stesso raccontò anni dopo nel suo ultimo discorso, il giorno prima di venire assassinato. Ma, aggiungo, anche la scoperta di avere rischiato la vita per mano di una donna della sua stessa razza – cosa per lui impensabile fino a quel momento – dovette lasciargli una eco profonda. Infatti fu proprio durante la convalescenza che, trovandosi in regime di riposo forzato, egli decise di visitare l’India, come desiderava fare da tempo, avendo studiato Gandhi fin da giovane.[7] Vi andò con la moglie e un amico: «Noi tre eravamo una specie di squadra a tre teste, con sei occhi e sei orecchie per guardare e ascoltare». La partnership era la sua forza.
In un certo senso tutte le personalità pubbliche fanno i conti con il pensiero della propria morte, sapendo di avere a che fare con i nemici della causa alla quale si sono votati, qualunque essa sia. Nel caso di M.L. King, però, questo dato si accentua: anzitutto la causa era proprio la resistenza non violenta, di cui Gandhi era stato il rappresentante più celebre in tutto il mondo (l’India deve a lui l’indipendenza politica); inoltre M.L. King non poteva avere messo in conto l’eventualità di subire un attentato proprio per mano di una donna della sua stessa razza. La psicopatologia è, come si direbbe oggi, trasversale: essa alberga ovunque e trascende i confini razziali, religiosi e politici. Non so quanti, prima o dopo Freud, abbiano osservato e compreso questo dato.
Dunque la decisione di recarsi in India nel febbraio 1959 fu vocazionale in senso proprio:[8] M. L. King cercava altri compagni per far fronte alla propria vulnerabilità: le sue innegabili doti di retore, al confronto, sono assai meno decisive per comprendere le ragioni per cui ancora oggi egli è considerato, non a torto, il più grande “profeta” del XX secolo.[9]
L’appuntamento con il/la partner.
Tornando al discorso del 1963 a Washington, si trattò di improvvisazione, certo, ma solo in quanto M.L. King obbedì al suggerimento che gli veniva, fuori programma, da un’amica. Ma se le cose andarono così, perché la tesi del professor Grant non ha ricevuto obiezioni? Si pensa – a torto – che ciò potrebbe comportare un “abbassamento” della figura del grande oratore di colore,[10] mentre a mio avviso l’episodio ne aumenta senza alcun dubbio la statura.[11]
Ecco che cos’è un appuntamento: in una partnership ciascuno può prendere idee dall’altro. Le buone idee sono eccitamenti per il pensiero e chiamano all’obbedienza, addirittura la esigono. La creatività non c’entra nulla, salvo ripensarne daccapo il concetto.
[*] Articolo pubblicato il 10 ottobre 2016 nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it, a cura di E. Leonardi: http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=516&id_n=39284
[1] Martin Luther King Jr. (Atlanta 15 gennaio 1929, 4 aprile 1968) è stato un importante uomo politico statunitense, pastore battista e leader nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1964. Egli nacque con il nome di Michael King Jr. Nel 1934 suo padre, Michael King Sr., pastore battista e co-fondatore dell’American Civil Rights Movement, decise di cambiare il proprio nome e quello del figlio maggiore dopo un viaggio in Germania, in cui rimase fortemente impressionato dalla figura del riformatore Martin Luther.
[2] Il Centro, la casa natale, la chiesa battista ed altri edifici sono stati riconosciuti Sito Storico Nazionale e sono amministrati dal National Park Service: https://www.nps.gov/malu/index.htm
[3] Cfr. I have a Dream. Writings and Speeches that changed the World; edited by J.M. Washington, Foreward by Coretta Scott King, HarperCollins Publisher, NY, 1986, 1992.
[4] http://news-town.it/mondo/1212-i-have-a-dream-il-sogno-di-martin-luther-king,-cinquant-anni-dopo.html
[5] «What about Martin Luther King, Jr.? The night before the biggest speech of his life, the March on Washington, he was up past 3am, rewriting it. He’s sitting in the audience waiting for his turn to go onstage, and he is still scribbling notes and crossing out lines. When he gets onstage, 11 minutes in, he leaves his prepared remarks to utter four words that changed the course of history: “I have a dream”. That was not in the script. By delaying the task of finalizing the speech until the very last minute, he left himself open to the widest range of possible ideas. And because the text wasn’t set in stone, he had freedom to improvise.» A. Grant, The surprising habits of original thinkers, TED Featured 2016, Filmed Feb 2016, Posted Apr 2016: https://www.ted.com/talks/adam_grant_the_surprising_habits_of_original_thinkers. A. Grant è professore di psicologia dell’organizzazione alla Wharton School of Business, University of Pennsylvania.
[6] La Jackson accettava di incidere dischi soltanto di quel genere di musica, mentre rifiutava qualunque altra proposta. Il suo rapporto con M.L. King è la storia di un’amicizia: un uomo e una donna che lavorano nella stessa direzione.
[7] Per un approfondimento circa il rapporto tra il pensiero di M.L. King e quello di Gandhi, rinvio all’articolo, molto istruttivo e ben documentato, del prof. Enrico Peyretti:“Martin Luther King e Gandhi”, reperibile online a questo link: http://scienzaepace.unipi.it/old/index.php?option=com_content&view=article&id=588:martin-luther-king-e-gandhi&catid=14:pace-e–cammini-di-pace. Cito: “King non entrò mai a far parte di una organizzazione pacifista. Egli scrive ancora: «Dopo aver letto Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze”. (Scienza e Pace, rivista del CISP, Università di Pisa, 8 maggio 2008).
[8] M.L. King scrisse più di una pagina sulla sua idea di vocazione. Per farsi un’idea degli autori e dei concetti che formarono il suo pensiero politico è utile scorrere l’indice del libro citato nella nota 3: vi si trovano molti nomi di filosofi antichi e moderni, oltre che di letterati, teologi e politici.
[9] Dal 1983 la città di New York celebra il terzo lunedì di gennaio il Martin Luther King Day, chiudendo tutte le scuole e promuovendo gesti di impegno civile fra i giovani. Dal 1993 la festività è riconosciuta in tutti gli Stati degli USA. Il recente film Selma – La strada per la libertà (della regista Ava DuVernay, USA, 2014) è un’onesta e toccante ricostruzione delle marce da Selma a Montgomery, grazie alle quali venne riconosciuto il diritto al voto della gente di colore nello Stato dell’Alabama. Nel film compare brevemente il discorso con cui M.L. King accettò il Nobel per la pace nel 1964. Annoto che la regista avrebbe potuto inserire il video originale, disponibile online, a mio avviso molto più efficace rispetto alla ricostruzione cinematografica: http://www.nobelprize.org/mediaplayer/index.php?id=1853
[10] Debbo questa osservazione ad una conversazione con Luca Flabbi, da anni residente negli USA.
[11] Circa il concetto di partnership, Gabriella Pediconi mi ha ricordato che andò così anche tra Freud e Ferenczi, almeno fino ad un certo momento. Quando Freud venne invitato alla Clark University nel 1909, fu accompagnato da Ferenczi e Jung. Ebbene, Freud non preparava niente di scritto di quello che avrebbe detto. Di fatto ogni lezione, scrive il suo biografo Jones, veniva preparata durante una mezz’ora di camminata con Ferenczi. Il loro rapporto, fino a quel momento, era ancora produttivo. Poi Ferenczi se ne ritrasse e Freud non poté che prenderne atto.
Al tema dell’appuntamento è dedicato il Simposio di quest’anno della Società Amici del Pensiero “Sigmund Freud”: http://societaamicidelpensiero.it/wp-content/uploads/Q_2016_2017.pdf