L’occasione: un cine-seminario con la psicoanalisi
In questi mesi il Museo Interattivo del Cinema (MIC) ospita il Cine-seminario con la psicoanalisi Onora il figlio. L’undicesimo comandamento.[1] Il Leitmotiv è il medesimo di questa rubrica, ovvero il rapporto tra padri e figli. Il ciclo ha preso il via il 26 gennaio con Mio figlio Professore (1946).[2] La proiezione è stata preceduta da una breve introduzione di Luisa Comencini[3] e da una presentazione di Paolo Mereghetti.[4]
Uno sguardo alla trama di “mio figlio professore” (1946)
Orazio Belli (Aldo Fabrizi) è il bidello del liceo classico Visconti, il più antico e prestigioso di Roma. Rimasto vedovo con il figlio ancora in fasce, gli dedica tutta la propria vita, spingendolo a farsi una posizione: «per fargli avere la cattedra di latino nel suo liceo, è disposto a far carte false, ma l’intransigenza del figlio non gli permetterà di godere di questo piccolo trionfo.» (Mereghetti, 2014) Ripercorrendo vent’anni di storia italiana a partire dall’ascesa al potere del fascismo, il film racconta un certo tipo di ambizione paterna, votata all’insuccesso perché appesantita dall’ingenua ricerca del riscatto sociale.
Il narcisismo dei genitori: il vero tallone di Achille
La pagina che Freud scrisse a questo riguardo nel 1914 ci permette di comprendere le ragioni di tale insuccesso: «Se consideriamo l’atteggiamento dei genitori particolarmente teneri verso i loro figli, dobbiamo riconoscere che tale atteggiamento è la reviviscenza e la riproduzione del proprio narcisismo al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato. (…) Si instaura in tal modo una coazione ad attribuire al bambino ogni sorta di perfezioni di cui non esiste indizio alcuno se lo si osserva attentamente, nonché a dimenticare e coprire ogni sua manchevolezza. (…) La sorte del bambino dev’essere migliore di quella dei suoi genitori (…) egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel “His Majesty the Baby”, che i genitori si sentivano un tempo. Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori: (…) si ottiene sicurezza rifugiandosi nel bambino. L’amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita».[5] Cose vetuste e ormai sorpassate? Domanda retorica.
Quando il padre è “faber sfortunae suae”
A mio avviso, questo film mostra molto bene il narcisismo del padre-bidello: “non ci sono né facili piagnistei né inutili sentimentalismi” (Mereghetti, 2016): Castellani non ha affatto ceduto al gusto del patetico nel giudicare la condotta del protagonista.[6]
Un solo esempio: allorché Orazio si scopre incapace di trovare una soluzione all’inaspettato conflitto con il figlio e decide di uscire di scena, si lascia andare ad una specie di auto-rimprovero: «Non ti scorda’ che tu sei bidello e lui professore…Così è fatto il mondo. E’ fatto male ma è così!» Ebbene, ha torto, anche se la sua figura impacciata, soccorrevole e paternalistica, aveva potuto destare fino a quel momento una certa compassione. Ma egli resta faber sfortunae suae (per dirla in latino maccheronico). I suoi modi dimessi lo spingono a… dimettersi: sentiva di avere osato troppo. Si pensi alla canzone Papaveri e papere di qualche anno dopo.[7]
Per il bidello Orazio l’ascesa sociale è un Oggetto idealizzato, un miraggio. Né può essere diversamente: la sua “ambizione” resta tutta interna alla cornice della Cultura classica, quella con la ‘C’ maiuscola.
Non a caso il film è ambientato, nonché girato, nel più prestigioso liceo classico romano, quell’Ennio Quirino Visconti che per decenni ha formato la crème intellettuale e politica italiana.[8] Una scuola di eccellenza, come si direbbe oggi. In questa cornice tanto austera, Castellani sceglie di ritrarre la figura più “bassa”, il bidello: un mestiere in certo senso servile ed esposto al dileggio, forse perché, a differenza del contadino o dell’operaio, non è un lavoro produttivo.
Vero che per i bambini delle elementari di ogni ceto, la figura del bidello non era affatto minore rispetto a quella del maestro o della maestra: prima della riforma del 1962, o fino al ’68, il bidello era una specie di zio, uno sportello preziosissimo, che provvedeva ai mille imprevisti e bisogni dei piccoli scolari. Ma qui non vi è alcuna traccia di tutto questo: Orazio senior è una figura claustrofobica, come scrive Pier Maria Bocchi: è dedito solo al figlio![9] E allo stesso tempo è un personaggio in certo senso all’avanguardia, perché ricorda da vicino il “mammo” dei nostri giorni.
Certo, si ride alla gag in cui Orazio farfuglia semi-parole incomprensibili quando vuole citare titoli e argomenti dei dotti articoli pubblicati dal figlio divenuto professore. Eppure egli non mostra alcuna curiosità per quella cultura: nessuna lettura, nessun movimento. Proprio come accade al protagonista di Umberto D. di De Sica[10] che, mentre vende per un tozzo di pane i suoi libri ad una bancarella, confessa di non averli mai aperti! Inescusabile.
‘Commedia dolceamara’, è stato scritto. Ma attenzione all’aggettivo composto: l’ossimoro nasconde spesso la perversione. Può qualcosa essere allo stesso tempo dolce e amaro?
Nel finale “di intensità quasi insopportabile” (Mereghetti 2016), il figlio non immagina neppure che il padre si sia autoesiliato. Ne è testimone invece la giovane Pinuccia, che dà l’addio al vecchio bidello con un bacio affettuoso. Spetterà a lei dare la notizia a Orazio jr. con cui sta per fidanzarsi. La nuova coppia avrà maggior fortuna? Melodramma o illusione? O un karma in versione occidentale? Resta che padre e figlio, in questa storia, non hanno in comune alcuna ‘azienda’, né alcun mezzo di produzione.
Nel prossimo film, La gatta sul tetto che scotta (Brooks, 1958), tutta la vicenda è imperniata sulla capacità del figlio di raccogliere in modo personale l’eredità paterna. Una capacità che deve anzitutto, come vedremo, alla moglie, una donna eccezionale. Appuntamento al MIC il 23 febbraio prossimo.
[1] L’espressione “onora il figlio”, coniata da G.B. Contri, ricapitola il decalogo più noto della storia dell’umanità. Chi non onora un figlio (figlia compresa) lo ammala, mostrando così di essere egli stesso malato. Quattro film molto diversi tra loro e imperniati su un unico tema: il passaggio generazionale. Sarà privilegiato l’apporto di Freud, l’unico pensatore moderno che abbia indagato a 360 gradi il tema del padre, partendo dal rendere nuovamente pensabile che cosa significhi essere figlio e figlia. Contri ha raccolto e perfezionato tale ricerca: esiste passaggio tra padre e figlio laddove il rapporto volge al profitto. È questo il test dell’amore (link alla pagina del sito MIC Onora il figlio. L’undicesimo comandamento.)
[2] Mio figlio Professore: Italia 1946, b/n, 100’, R. Castellani. Con: Aldo Fabrizi, Giorgio De Lullo, Mario Pisu, Pinuccia Nava, Mario Soldati, Ennio Flaiano. Per un approfondimento sull’intera opera del regista, rinvio al recente Il cinema di Renato Castellani, a cura di L. Malavasi et Al., Carocci, 2015. Non so se il regista o qualcuno degli sceneggiatori abbiano avuto contatti con lo scrittore Ugo Ojetti (1871-1946): questi aveva pubblicato nel 1922 un romanzo dal titolo Mio figlio ferroviere, alla cui trama il film di Castellani sembra fare da contrappunto.
[3] Luisa Comencini, Segretario Generale della Cineteca Italiana, che quest’anno festeggia i 70 anni di attività con un nugolo di interessanti iniziative (http://cineteca70.cinetecamilano.it/), ha ricordato il ribaltamento operato dal punto di vista che mette l’accento sull’onorare il figlio: “è come se, da un ipotetico undicesimo comandamento, si chiedesse al cinema di dirci qualcosa sulle modalità in cui il padre – non più il figlio – debba rendere onore all’altro.” (dai miei appunti).
[4] Paolo Mereghetti, noto giornalista e critico del Corriere della Sera, autore dell’autorevole Dizionario dei Film che porta il suo nome (Baldini&Castoldi, 11^ ed., 2016) ha sottolineato come le qualità di questo film non siano state apprezzate a lungo, come invece avrebbero meritato, a causa del dibattito ideologico che divideva la critica in opposti schieramenti sociali e politici. Solo quando tale dibattito ha assunto toni più sfumati, anche questo genere di “cinema non monocorde” ha potuto trovare degli estimatori (dai miei appunti).
[5] S. Freud, Introduzione al narcisismo, 1914, OSF. Vol. VII, pagg. 460-461.
[6] Una interessante espressione di Luigi Comencini: «Il pubblico vuole il patetico? Castellani gli dà il patetico, ma non ci crede, non ci crede assolutamente.» (F. Pitassio, Uomini e animali. Renato Castellani nonrealista, in: Malavasi, op.cit., pag. 26).
[7] G.B. Contri, commentando una battuta di Altan apparsa su Repubblica (“Forse è ora che l’umanità si dimetta”), scrisse: «Forse è ora di pensare che l’umanità possa cessare di dimettersi. Freud ha cercato questo pensiero. La migliore rappresentazione che conosco del peccato dell’umanità è la dimissione, o abdicazione, di Re Lear. Tutta la psicopatologia è dimissione, autogestione dell’esautorazione, prima subita poi inferta.» (G.B. Contri, L’inno del terrorismo: “papaveri e papere”, Bed&Board, 9/09/2004). Ricordo che Papaveri e papere si classificò al secondo posto al festival di Sanremo 1952. Nella sua malcelata melanconia fu un successo straordinario: https://www.youtube.com/watch?v=1a1GYZZt8Vw
[8] Il Visconti, fondato nel 1871 nella sede del prestigioso Collegio Romano istituito da Ignazio di Loyola per la formazione dei Gesuiti, annovera tra i suoi allievi molti nomi illustri, tra cui Pio XII, Giulio Andreotti, Giorgio Amendola, Franco Modigliani, Guido Carli e Roberto Longhi.
[10] Cfr. G.M. Genga, Di padre in padre. Passaggi generazionali in casa De Sica, http://www.glaucomariagenga.it/?p=156