Ci sono film e libri che con il passare del tempo non invecchiano, a differenza di altri che a distanza di decenni, o solo di anni, non suscitano affatto l’interesse o l’entusiasmo della prima volta. Come mai? Per ora lascio aperto l’interrogativo: ognuno può provare a rispondere in proprio.
La gatta sul tetto che scotta (1958)[1] è appunto un film ‘sempreverde’, ad alta tensione morale e confezionato in modo elegante e lieve. Recitato in maniera perfetta da tutti gli interpreti, tra cui spiccano Elizabeth Taylor e Paul Newman,[2] ottenne un grande successo e sei nomination all’Oscar, pur non vincendone neppure uno. Il film ha quasi sessant’anni, ma non li dimostra.
‘La gatta sul tetto che scotta’: un cenno alla trama
Mississippi, anni Cinquanta: «Un autoritario barone terriero malato di cancro festeggia il 65° compleanno insoddisfatto dei due figli, uno dei quali è un avido bruto e l’altro un ex-atleta nevrotico che rifiuta di dormire con la bella moglie» (Morandini). Il regista e sceneggiatore Richard Brooks, figlio di immigrati russi di origine ebraica, adattò per il cinema l’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams,[3] che in quegli anni era in cartellone al Morosco Theatre di New York. Brooks ne fece un ottimo dramma familiare, imperniato sullo «scontro generazionale e catarsi collettiva» (Mereghetti). Memorabili le scene in cui la giovane moglie cerca di sedurre il marito renitente.[4] In un certo senso la protagonista dell’intera storia è proprio lei, Maggie “la gatta”, sul cui soprannome tornerò tra poco. Bellissima lei, bellissimo lui, eppure le cose tra loro non funzionano, it doesn’t work out. La coppia sembra destinata a non avere alcun futuro, né figli.[5] Il marito (Brick) non fa che attaccarsi alla bottiglia, logorato dal senso di colpa per la perdita dell’amico Skipper, suicidatosi anni prima in circostanze mai chiarite. Maggie è arrabbiatissima (sia pure in modi assai civili, se paragonati agli stili narrativi ben più aggressivi di oggi): la giovane proviene da una famiglia povera, e non intende affatto mandare a rotoli matrimonio e posizione sociale, persuasa che il marito possa ancora riprendersi e guidare la ricchissima azienda paterna. Il fratello e la cognata di Brick non fanno che aspettare la morte del padre (Bid Daddy) mentre mentono a tutto spiano sulle proprie intenzioni e incolpano Maggie di non aver dato alla luce neanche un figlio. Attraverso i fantasmi del passato, lo scontro tra Brick e suo padre troverà infine una soluzione proprio grazie all’intraprendenza di Maggie, a vantaggio di molti, se non di tutti.
A onor del vero, il film non fa capire chiaramente la vera ragione del sospeso tra padre e figlio, perché Brooks dovette stemperare ogni riferimento all’omosessualità del personaggio del giovane, in obbedienza al codice di autoregolamentazione in vigore in quegli anni nel cinema statunitense.[6] Il passato di Brick viene rappresentato in modo tale da non svelare granché. Afferriamo però il nocciolo del conflitto: il figlio sente di avere deluso le aspettative del padre, che avrebbe voluto farne una star del football.
Va detto che il film fu realizzato superando difficoltà diverse e crescenti: all’inizio Newman, allora molto meno celebre della Taylor, si lamentò ripetutamente con il regista per la recitazione della diva, a suo giudizio troppo passiva e scostante durante le prove. Ma il 22 marzo 1958 il marito della Taylor, allora ventiseienne e già al terzo matrimonio, morì improvvisamente precipitando con il suo aereo privato (il Lucky Liz), sul quale avrebbe dovuto trovarsi anche la moglie. L’attrice, rimasta vedova con tre figli piccoli tra cui la terzogenita di appena sette mesi, dapprima rifiutò di proseguire le riprese del film, trattando il regista a male parole, ma poi tornò sui suoi passi spontaneamente. Brooks dichiarò: «Non è mai mancata un giorno e non è mai arrivata in ritardo»: la sua forza d’animo sorprese tutti e contribuì a creare un ottimo clima sul set.[7]
Che c’entra la ‘gatta’?
Il titolo suona un po’ frivolo e non rende giustizia alla vicenda, che invece non lo è affatto. Nella sceneggiatura di Brooks, Maggie si adopera in tutti i modi per riconquistare lo scontroso marito e allo stesso tempo non nasconde il suo trasporto per il suocero, ancor prima che a costui venga diagnosticato un cancro incurabile. Il ‘tetto che scotta’ allude al clima di menzogna imputabile a tutti i componenti della famiglia: dunque la sua non è affatto una condotta isterica o irragionevole. Persino nel finale, allorché dichiara di essere incinta mentre non lo è ancora, si mostra intelligente e coraggiosa. Mente anch’essa? Niente affatto. Piuttosto getta le basi per ricostruire l’intesa con Brick. Maggie bluffa, non bara: tanto di cappello! Nei decenni successivi il cinema, nel rappresentare il rapporto tra i sessi, ci ha quasi assuefatti ad ogni specie di impasse, come se il fallimento sia l’unico destino cui può andare incontro la vita sessuale.
Anche il rapporto tra Maggie e Big Daddy è degno di nota; a me ha ricordato la stima e l’affetto che legavano Sigmund Freud alla moglie di suo figlio Ernst, Lucie Brasch. Freud «presto sviluppò una cordiale simpatia per la nuova nuora, la quale lo contraccambiava al punto da confessare al marito: “Sono contenta di non averlo conosciuto prima di te. Mi sarei sempre tormentata a chiedermi se è a causa sua che io amo te”.»[8] Qualcosa del genere è di buon auspicio per ogni matrimonio: Freud mette in guardia gli uomini dallo sposare donne in grave conflitto con il proprio padre.
Viene da pensare che Tennessee Williams abbia creato il personaggio di Maggie via identificazione: la “gatta” è lui stesso, e la protesta della giovane donna rappresenta in un certo senso la reazione del drammaturgo al mito americano del macho. Williams è arrivato fino a qui.
La soluzione vantaggiosa…
… è economica ed è incentrata sul profitto.[9] Ma occorre qualcuno che lo sappia produrre: non bastano gli acri di terra o le ingenti somme di denaro accumulate dal patriarca. La lamentela del fratello di Brick («ho fatto tutto quello che papà ha voluto… non è giusto!») ricorda la parabola evangelica dei talenti: chi non ci mette niente di suo non è davvero affidabile, né è un erede. I due figli incarnano due generi di obbedienza opposti.
Mi servo ancora del vangelo: «Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”.» (Matteo, 21; 28-32)
La statura di Big Daddy emerge verso la fine del film, nell’incontro-scontro con Brick nella grande cantina zeppa di oggetti obsoleti, che sembrano ricordargli l’ineluttabilità della morte. Nella confessione circa il rapporto con il proprio padre (“amavo quel vagabondo”), Big Daddy si sorprende capace di essere ancora figlio. Da quel momento, egli torna ad essere interessante per Brick. La scena, che fu introdotta da Brooks (nel dramma di Williams non ve n’è traccia), è il momento più toccante del film, tutto intessuto intorno ad un doppio intreccio: quello del rapporto uomo-donna vòlto al profitto, e quello in cui padre e figlio si fronteggiano nella ricerca appassionata di una soluzione che valga per entrambi.
Nel prossimo film (Shine, 1996, regia di Scott Hicks) vedremo come la psicopatologia, nella fattispecie la psicosi, abbia invece una forte connotazione antieconomica, cosicché il titolo (Shine, splendore, fama) suona come uno sberleffo.
[1] Cat on a Hot Tin Roof, USA 1958, col., 108’. Regia di Richard Brooks. Con: Elizabeth Taylor, Paul Newman, Burl Ives, Judith Anderson. Ho proposto questo film il 23 febbraio scorso al Museo Interattivo del Cinema (MIC) all’interno del Cine-seminario con la psicoanalisi Onora il figlio. L’undicesimo comandamento. Alla proiezione è seguito un breve commento a più voci, cui ha partecipato il prof. Marco Cucco, docente di economia del cinema all’Università della Svizzera Italiana e professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.
Questo articolo è in uscita in questi giorni sul sito www.societaamicidelpensiero.it, mentre una prima stesura è apparsa il 14 marzo scorso nella rubrica Father&Son del sito www.culturacattolica.it.
[2] A Paul Newman ho già dedicato altri due articoli: Intraprendenti: padre e figlio nel film ‘La lunga estate calda’ (1958) e L’omaggio di un freudiano a Paul Newman (redatto a pochi giorni dalla morte dell’attore).
[3] Tennessee Williams (1911-1983) fu un autore molto prolifico; tra i suoi drammi di maggiore successo: Lo zoo di vetro (1944), Un tram che si chiama desiderio (1947), La gatta sul tetto che scotta (1955) e Improvvisamente l’estate scorsa (1958). In molte sue opere è presente un richiamo, ironico e/o provocatorio, all’omosessualità. L’adattamento cinematografico di Cat on a Hot Tin Roof non lo convinse affatto.
[4] La candida e raffinata sottoveste indossata dalla Taylor per buona parte del film contribuì – non senza ragione -al lancio di questo capo di lingerie che si andava affermando in quegli anni. Lo stesso accadde per la virile canottiera indossata da Brando in Un tram che si chiama desiderio (1951) e, ancor prima, per l’impermeabile di Bogart in Casablanca (1942). Il nesso tra cinema, costume e industria non è da dimostrare: è meglio non esercitare troppi distinguo tra cinema commerciale e autoriale ogni volta che un messaggio o un’idea raggiungono e influenzano milioni di persone.
[5] Una nota per i lettori più curiosi o più accorti. Che cosa pensare del rimprovero della madre di Brick alla nuora? «Insomma, qui c’è qualcosa che non va! Tu non hai figli, mio figlio beve! Quando un matrimonio affonda, cara mia, lo scoglio è il letto!» (When a marriage goes on the rocks… the rocks are there, right there!). C’è qualcosa di irrisolto in questa denuncia: per come essa è formulata, non è chiaro se i sessi soffrano per un’impasse che ha la propria origine altrove, o se invece ne siano la causa. Cambia tutto: il primo caso ricorda il rifiuto della posizione femminile, o ricevente, che Freud indica come ultimo ostacolo alla guarigione (la “roccia basilare”, in Analisi terminabile e interminabile (1937); nel secondo caso avremmo il solito stereotipo, ‘la sessualità’.
[6] «Il Production Code, o codice Hays, è una forma di autocensura che l’industria cinematografica statunitense adottò fin dagli anni ’30, a seguito di una serie di scandali legati alla vita privata di attori e registi dell’epoca. In forza di esso, tutti i film, per arrivare nelle sale, dovevano rispettare una serie di regole circa le scene di nudo o di rapina, la religione, la bandiera nazionale, etc. Il codice rimase in vigore sino al 1967, anche se col passare degli anni le sue maglie divennero più morbide. Dal 1967 venne sostituito da un rating system: alcuni film furono vietati ai minori di 14 o di 18 anni. In tal modo non si censurava più il contenuto, ma si regolamentava chi poteva avere accesso ad una determinata tipologia di contenuti.» (M. Cucco, dai miei appunti).
[7] Cfr.: S. Levy, Paul Newman. Una vita. Trad. di F. Pedroni, Baldini Castoldi Dalai, 2010, pag. 133.
[8] S. Freud, Intanto riminiamo uniti. Lettere ai figli, Archinto 2013, pag. 145. Inoltre, poco dopo la scomparsa della figlia Sophie (1920), Freud si rivolse alla futura nuora con queste parole: «Mia cara figlia, (…) come tu hai perso un padre amato, così io ho perso da poco una figlia e da allora sono così ferito, che non oso credere nella buona sorte. Ma pare che la buona sorte sia ancora possibile, e che essa sia tu.» (pag. 161). Per un approfondimento circa il rapporto tra Freud e i suoi figli, rinvio a: G.M. Genga e M.G. Pediconi, Ubi bene ibi patres. Freud e i suoi figli, Gli Argonauti n. 150, Carocci, settembre 2016.
[9] Circa la rilevanza del profitto nel rapporto padre-figlio, G.B. Contri ne ha parlato e scritto più volte, come ho indicato nel mio articolo recente Nel nome del Padre, del Figlio e del… Profitto.