A long-standing marriage, «un matrimonio di lunga durata»: cosi G. O. Gabbard, psicoanalista statunitense, descrive il rapporto tra cinema e psicoanalisi. E ciò per la comune data di nascita, il 1895, anno del primo cinématographe dei fratelli Lumiere e della pubblicazione di Studi sull’isteria di Breuer e Freud.
Ma vi è di più: cinema e psicoanalisi, all’inizio del Novecento, hanno di fatto inaugurato due nuove modalità di trattamento del corpo. Infatti il corpo dello spettatore seduto in sala e il corpo del paziente disteso sul divano sono ambedue corpi pulsionali, soggetti alla stessa legge di moto, secondo l’innovativa definizione della pulsione introdotta dallo psicoanalista italiano Giacomo B. Contri.
In entrambi i casi i corpi sono messi in movimento da nuove offerte di senso.
Con le parole di Freud: «L’assistere come spettatore partecipe al “ludo” scenico dà all’adulto ciò che il “gioco” dà al bambino, essere un eroe; e gli autori e attori teatrali glielo consentono, permettendogli di identificarsi con un eroe. Gli risparmiano al tempo stesso qualcosa, il suo godimento ha come presupposto l’illusione, si tratta solo di un gioco da cui non può derivare alcun danno per la sua sicurezza personale.»
(Personaggi psicopatici sulla scena, 1905)
Allo spettatore non resta che cavalcare il meccanismo dell’identificazione per rielaborare quel che vede sullo schermo nei termini della propria esperienza. Più in generale, ogni volta che un film sarà riuscito a proporre, via rappresentazione, una buona idea, ne risulterà un arricchimento per il pensiero.
A questa pagina si correlano alcune iniziative, tra cui le proiezioni ad inviti realizzate finora al cinema Anteo di Milano.
Non vogliamo parlare di film, vogliamo film che ci parlino.